giovedì 22 marzo 2012

Una via d'uscita per Bersani

Pierluigi Bersani (PD)

Mai come in questi ultimi giorni l'esistenza stessa del Partito Democratico rischia di essere messa in discussione.
Lo strappo - perché di strappo si parla - del Governo sull'annosa questione dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha fatto letteralmente deflagrare il partito, più diviso che mai tra la sua anima filomontiana che fa capo all'area veltroniana e quella socialdemocratica le cui posizioni si possono riassumere nella visione di Stefano Fassina, responsabile Finanza Pubblica ed Economia Internazionale del partito.

Il principale oggetto del contendere è legato al reintegro a seguito dei licenziamenti per motivi economici; in primo luogo se possa o debba essere previsto dalla norma, ed in secondo luogo a chi spetti la valutazione sulla tipologia di licenziamento e quindi sulla tipologia di azione da intraprendere, se indennizzo o reintegro e nel primo caso l'ammontare della somma dovuta al lavoratore. Secondo la proposta del Governo la decisione spetta alle aziende, ovvero ad una delle due parti in causa, mentre l'anima più di sinistra del PD propendeva per lasciare la decisione ad una figura terza, in particolare al giudice del lavoro.

Le prime dichiarazioni a caldo dei membri delle due aree del PD sono state estremamente tranchant, lasciando quasi presagire una rottura che né lo spirito di appartenenza alla formazione né le parole del segretario, Bersani, avrebbero potuto ricomporre. Dopo una giornata i toni sono in parte mutati, ed il PD pare essersi schierato con compattezza sulla soluzione considerata più di sinistra, ma questa ritrovata unità non deve trarre in inganno.
Se infatti il Partito Democratico nella sua interezza può essere favorevole ad una modifica della riforma del mercato del lavoro ed anche impegnarsi seriamente per ottenerla, un esito negativo di questa operazione riaprirebbe le crepe nella facciata del partito emerse con tanta chiarezza al momento del primo annuncio della riforma. Se si arrivasse ad un voto sull'attuale testo, è infatti difficile credere che il PD saprà votare compattamente, in un senso o nell'altro.

Il fenomeno paradossale è che per alcuni esponenti democratici la questione dirimente non risiede tanto nei diritti dei lavoratori o delle aziende, ma nella collocazione politica futura di quello che oggi è il principale partito di centrosinistra. Scambiando la causa con l'effetto, non sono pochi i parlamentari del PD che oggi voterebbero contro o a favore della riforma in virtù di quella che ritengono debba essere la collocazione del partito nelle future competizioni elettorali, se il PD debba essere un partito di centro alleato con il Terzo Polo oppure il perno di un centrosinistra in stile foto di Vasto. Il vero rischio, tuttavia, è che il partito stesso esploda, almeno a livello di classe dirigente, scindendosi - pur con qualche rimescolamento - nelle due componenti che solo pochi anni prima si erano fuse dandogli vita.

In tutto questo si staglia la figura di Bersani, segretario del PD e come tale tenuto a curarsi tanto di rispondere ai milioni di elettori che nel 2008 hanno scelto di dare fiducia al centrosinistra, quanto del partito stesso. A differenza di episodi del passato in cui singoli esponenti hanno abbandonato la formazione, la situazione attuale rischia di lacerare il partito in due tronconi, nessuno dei quali sia più in grado di contenere l'essenza del PD, decretando quindi il fallimento del progetto del partito e in generale di un progetto di centrosinistra italiano di stampo non comunista.
Se, come sembra, vi sono possibilità di modifiche alla proposta dell'esecutivo è bene che il PD si adoperi per ottenerle, ma al tempo stesso Bersani deve tenersi pronto a fronteggiare la possibilità di una crisi senza precedenti nel proprio partito, che si consumerà sicuramente se la via della trattativa con il Governo dovesse fallire.

Esiste, tuttavia, una mossa che il segretario del PD potrebbe usare per sparigliare le carte e volgere la partita a proprio favore e a favore del partito, una mossa che consiste di fatto con la più grande innovazione che la nascita del Partito Democratico ha portato alla politica italiana: le primarie.

Volete che votiamo la riforma del mercato del lavoro così come proposta dal Governo?
Volete che votiamo la riforma del mercato del lavoro così come proposta dal Governo se dovesse essere richiesto un voto di fiducia?

Con queste due semplici domande, da porre magari solo agli iscritti (la tessera dovrà pur servire a qualcosa), Bersani otterebbe solo vantaggi, rinforzerebbe la propria leadership e con ogni probabilità salverebbe il PD dallo sfascio a cui sarebbe probabilmente destinato in caso di mancata modifica della riforma.
Quando si parla di lacerazioine nel partito, in effetti, si parla in massima parte di dirigenza. Il popolo democratico, per quanto variegato, è molto più unitario di quanto si possa pensare. Per di più le elezioni primarie con il tempo sono diventate un tratto distintivo e identitario del partito, un motivo di orgoglio nel quale riconoscersi. Utilizzare lo strumento su un tema così delicato servirebbe a compattare l'elettorato PD persino se l'esito delle votazioni dovesse essere in bilico e l'elettorato diviso. Inoltre il vantaggio mediatico di non apparire come un partito che decide nel chiuso della propria torre d'avorio del destino di milioni di lavoratori sarebbe un impulso importante in vista dei prossimi appuntamenti temporali, e a maggior ragione in caso di termine anticipato della legislatura.
Al tempo stesso Bersani, sposando la posizione vincitrice delle primarie, diverrebbe di fatto inattaccabile. Inattaccabile dalle provocazioni esterne, che siano di appiattimento sulla linea della CGIL quanto di tradimento degli ideali della sinistra; ma si porrebbe inoltre come elemento super partes nelle lotte interne al partito, diverrebbe esecutore della volontà della base e come tale da parte in causa si trasformerebbe in custode del mandato degli elettori.
Infine, in caso di lacerazione del partito, la presenza di un'indicazione della base consentirebbe di dire chi è il PD e chi invece se ne è tirato fuori; chi ha tenuto fede al patto con gli elettori e chi, pur nel rispetto dell'assenza di un vincolo di mandato, se ne è discostato.

Servirebbe, certo, un atto di coraggio; servirebbe l'audacia di indire le consultazioni interne con la base per la prima volta proprio su un tema così spinoso, affrontare le accuse di non essere in grado di dettare una linea, di non saper trovare una sintesi delegando ogni cosa alla base. Eppure i vantaggi che ne scaturirebbero meriterebbero ampiamente un simile rischio. Sarebbe, per l'appunto, la mossa risolutiva, che permetterebbe al Partito Democratico di mantenere la propria identità e al tempo stesso aprire nuovi e graditi scenari di partecipazione diretta.
Bersani ci pensi.

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