martedì 8 marzo 2011

La mappa della vulnerabilità climatica

Il deserto del Kalahari (Namibia)

Recentemente è uscito, sulla rivista scientifica Global Ecology and Biogeography, uno studio a cura di J. Samson, D. Berteaux, B. J. McGill e M. M. Humphries dal titolo GEOGRAPHIC DISPARITIES AND MORAL HAZARDS IN THE PREDICTED IMPACTS OF CLIMATE CHANGE ON HUMAN POPULATIONS, finanziato dal Natural Sciences and Engineering Council of Canada e condotto dallo staff del Department of Natural Sciences della McGill University di Montreal.

Dopo una serie di studi dedicati alle migrazioni delle specie vegetali ed animali in risposta ai mutamenti climatici, la ricerca di Samson si concentra sull'uomo, cercando di costruire, a livello globale, una mappa della vulnerabilità umana rispetto al riscaldamento globale. L'abstract dell'articolo è disponibile a questo link.

La mappa di vulnerabilità climatica di J. Samson

La ricerca si basa su tre serie di dati di base: gli attuali modelli relativi all'incremento demomgrafico, quelli relativi all'incremento della temperatura media terrestre, e quelli specifici per le emissioni di CO2. Tali dati sono stati spazializzati in modo da cogliere gli andamenti specifici per tali parametri a livello locale.

La mappa delle vulnerabilità mostra i risultati ottenuti, evidenziando in una scala di colori che va dal verde (nessun impatto negativo) al rosso (forti impatti negativi) gli effetti del mutamento climatico sul pianeta nell'anno 2050. Le aree più penalizzate risultano localizzate prevalentemente nell'area equatoriale e tropicale, spaziando dall'America centromeridionale, alla penisola arabica, all'Indonesia, alla quasi totalità del continente africano.

A prima vista le conclusioni di Samson sfidano le attuali teorie sul riscaldamento globale, dal momento che vedono maggiori impatti per l'umanità in zone in cui ci si aspettano i minori aumenti di temperatura. Tuttavia non bisogna dimenticare come nello studio siano state tenuti in debita considerazione sia il fattore demografico che le condizioni di partenza.
L'Europa o l'America settentrionale hanno tassi di crescita demografica molto bassi, e, al netto dei fenomeni migratori, non vedranno in futuro crescite sensibili della popolazione; questo vuol dire che, anche in caso di problemi legati al riscaldamento globale, la domanda di risorse non sarà comunque in grado di superare l'offerta.
Al tempo stesso, nelle aree equatoriali e tropicali le pratiche agricole fondamentali alla sussistenza si svolgono già oggi in condizioni difficili: gli aumenti di temperatura futuri, anche se inferiori a quelli di altre zone del mondo, rischiano di spezzare il fragile equilibrio di quelle zone, facendo letteralmente esplodere la catena alimentare con tutti i tragici problemi che questo comporterebbe. Al contrario, le zone temperate e quelle polari sono in grado di sopportare aumenti di temperatura molto maggiori prima di incorrere in tali problemi.

Dai dati della ricerca emerge quindi un punto molto chiaro: i maggiori effetti del riscaldamento globale colpiranno i luoghi e le persone che meno ne sono responsabili, sollevando una vera e propria questione morale nel tema del cambiamento climatico.
I passaggi successivi della ricerca dovranno naturalmente riguardare gli inevitabili affinamenti del modello, sia tramite l'utilizzo di eventuali nuove proiezioni demografiche e climatologiche, sia attraverso l'inclusione di maggiori specificità geografiche, sociali e politiche a livello nazionale allo scopo di migliorare l'accuratezza del risultato finale, con l'obiettivo di costruire un vero e proprio indice quantitativo di vulnerabilità climatica riconosciuto a livello internazionale che sia in grado di essere un vero e proprio riferimento nei futuri accordi internazionali sul clima.

Quello a cui si tenta di arrivare, quindi, è una valutazione del mutamento climatico che sia frutto di una compenetrazione di criteri climatologici e antropologici. Se questo obiettivo dal punto di vista umanitario è ineccepibile, l'interrogativo che solleva è tuttavia molto profondo: è corretto valutare il cambiamento climatico, ed il riscaldamento globale in particolare, in funzione degli effetti che questi hanno sull'uomo? È corretto pensare che innalzamenti di temperatura non influenti - o addirittura positivi - dal punto di vista ad esempio della produzione agricola siano dei non-problemi, o comunque problemi di gravità inferiore a quelli - pur climatologicamente minori - che hanno gravi ripercussioni sulla qualità della vita dell'uomo?

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